Le reazioni di alcuni Eagles dopo l’uscita dell’articolo sulla CTE

Mercoledì 26 luglio Daniella Emanuel, giornalista di CNN.com, ha pubblicato un articolo ‘bomba’ sulla patologia che colpisce il 99% dei giocatori di football: la CTE (Chronic Traumatic  Encephalopathy). Tale degenerazione colpisce il tessuto cerebrale e viene individuata in coloro che sono stati esposti a ripetuti traumi al cranio. È caratterizzata da un accumulo della proteina Tau che porta alla disattivazione dei collegamenti neuronali, comportando una serie di sintomatologia che varia da confusione, perdita di memoria, ansia, depressione, scatti di rabbia e talvolta suicidio. Coloro che han riferito di aver avuto questi cambiamenti comportamentali durante la loro vita sono stati quelli che avevano maggiori possibilità di aver sviluppato la patologia degenerativa.

Due cervelli a confronto: a sinistra quello di una persona nomale, a destro quello di una persona affetta da CTE

La diagnosi, purtroppo, può esser verificata solo post mortem. Nel campione preso in esame dallo studio condotto da Mez et al (2017) è emerso che, nei 202 cervelli esaminati (provenienti da ex giocatori militanti nelle high school, nei college e nel professionismo), la CTE è stata diagnosticata in 177 di loro, tra i quali 110 su 111 negli ex giocatori del NFL.

In seguito a questo, alcuni giocatori dei Philadelphia Eagles, dopo aver appreso la notizia hanno espresso la loro opinione a Ed Eracz, del buckscountycouriertimes.com.

‘L’ho saputo per molto tempo, ma il gioco vale la candela?’ Ha affermato la right guard Brandon Brooks ‘Sì, lo vale in una certa misura quando sei giovane. Quando cominci ad invecchiare ci pensi un po’ di più, perché ormai hai superato il tuo prime e hai già guadagnato la maggior parte dei soldi. Cominci a pensare ai tuoi figli, a come trascorrere il tempo con loro, ma a causa del gioco che ami, ti rendi conto che potresti morire ben più giovane di una persona normale e lo accetti, perché fa parte del gioco. Riflettendoci non c’è nulla simile ad un ammortizzatore nel corpo umano. Certamente l’associazione cerca di far del suo meglio con la produzione di caschi più efficaci, ma non puoi far nulla quando il tuo cervello sbatte contro il tuo cranio. Ormai sono sei anni che sono all’interno di tutto ciò e lo vedo come qualcosa che mi potrà succedere, ma anche come un sacrificio per mia moglie e per i miei figli.’

Brandon Brooks

Il fatto che i cervelli analizzati abbiano evidenziato che negli OL vi è una percentuale maggiore di poter incorrere nella CTE, non desta alcuna preoccupazione in Brooks, che si espone su come lo studio potrà migliorare la vita delle generazioni future.

‘Riceviamo urti alla testa ad ogni azione, quando i running back portano la palla, quando effettuiamo dei pass blocking, quando i wide receivers si scontrano con i corner back. È ovvio che se subisci questo genere di scontri sia in allenamento sia in partita, fin da quando sei un ragazzino, appare normale che qualche conseguenza ci sarà. Non vorrei far giocar i miei figli fino ai 12 anni, fin quando il loro cervello non si sarà sviluppato sufficientemente.’

Sulla stessa linea di pensiero si esprime il safety Malcom Jenkins.

‘Penso che ogni giocatore lo faccia.’ ha risposto Jenkins alla domanda se ha mai pensato ai rischi della CTE ‘Soprattutto più si va avanti e più i vari infortuni si accumulano. In base alla tua carriera e alla tua storia passata in infermieria devi pensare a quale decisione prendere. Abbiamo visto innumerevoli ragazzi abbandonar la lega prima del previsto per motivi di salute ed è sicuramente quello che ognuno pensa per la propria salute.’ Ha poi continuato: ‘Per me l’obiettivo è giocare 10 stagioni e poi solo allora valutare se ritirarmi dal NFL. Dopo di ciò mi sederò e cercherò di analizzarlo, ma nulla cambia che amo questo gioco.’

Zach Ertz, da Stanford University, invece ha cercato di isolarsi dagli studi sulla CTE, preferendo concentrarsi sul miglior alcuni aspetti del suo gioco.

‘Non ho visto il film “Zona d’ombra” e non penso che ci saranno delle ripercussioni in merito a ciò.  Conosco un sacco di ex giocatori che stanno vivendo grandi vite ora che si sono ritirati. Ovviamente ci sono anche degli estremi che ai più sono completamente sconosciuti, ma credo che ci possa esser una tecnologia che ci possa aiutare in tutto ciò. Quando entro nel terreno di gioco non sto a pensare ai vari studi pubblicati, ma bensì a come giocare meglio e riuscir a divertirmi.’

In conclusione, pare che gli Eagles siano ben a conoscenza di cosa possano andar incontro con la loro professione ma che l’NFL, come una qualsiasi altra azienda, deve produrre dei guadagni. Poco importa quindi, di una possibile degenerazione dei propri atleti, visto l’immenso bacino da cui pescare ogni anno per rimpolpare i propri roster e le tasche dei vari GM e proprietari, perché alla fine vi è sempre e solo una regola: business is business.

 

@DavideBomben