16 Giugno 1970: l’ultima corsa di Brian Piccolo.

Sfogliando le pagine ingiallite sul football americano, difficilmente vi capiterà di imbattervi in una storia più bella e intensa di questa, intrisa di valori forti e grandi emozioni, caratterizzata da un’amicizia solida ed eterna in un’epoca nella quale, solo scambiare una parola con una persona di un colore diverso dal tuo, negli States, era un rischio nemmeno troppo calcolato; una storia di coraggio e lotta, di forza, passione, e debolezza, quella che alla fine di tutto ci ricorda, sempre e comunque, che siamo semplici uomini, destinati a camminare su un percorso che ha un inizio ed una fine prestabiliti.

L’inizio, nel caso di Louis Brian Piccolo è datato 31 ottobre 1943, il giorno in cui venne al mondo a Pittsfield, Massachussets, ultimo dei tre figli avuti da Giuseppe e Irene, famiglia di origine italiana che appena tre anni dopo si sarebbe trasferita a Fort Lauderdale, per curare i problemi di salute del maggiore Don nell’assolata Florida, dove il cucciolo di casa ha mosso i primi passi nello sport, tentando un approccio con l’atletica prima di dedicarsi al football e al baseball, il suo primo grande amore.

Iscritto alla Central Catholic High School, oggi conosciuta come St.Thomas Aquinas, Brian inizia a giocare come offensive tackle, ma fin da subito mostra di sapersi muovere egregiamente quando ha la palla in mano, e il suo allenatore decide di spostarlo nel backfield alla partenza della seconda stagione; con i Raiders gioca runningback per gli ultimi tre anni liceali, diventando un leader indiscusso, in campo e fuori, del team, e conquistando la notorietà necessaria per ambire ad una borsa di studio universitaria.

Contrariamente a quanto crede, gli arrivano però due sole offerte, da Wake Forest e Wichita State, e Piccolo decide di proseguire la sua avventura nel football trasferendosi a Winston-Salem, in North Carolina, dove per quattro season vestirà la divisa dei Demon Deacons, con i quali, nonostante le difficoltà iniziali, si toglierà delle belle soddisfazioni.

Dopo un anno passato a giocare con le matricole e due in cui fatica a mettere insieme numeri importanti, appena 691 yards su corsa, Brian esplode letteralmente nel corso del suo senior year, concludendo con 1,044 yds e 17 touchdowns in 252 portate la sua ultima stagione nel college football, impreziosita dalla vittoria del ACC Player of the Year Award che sembra donargli ancora più notorietà in vista dei Draft professionistici.

Purtroppo, ancora una volta, le aspettative vengono disattese, e Piccolo passa buona parte del 1965 tra i free agents, dopo essere stato ignorato sia dalle franchigie della AFL che da quelle della NFL; tra queste ultime, ci sono però i Chicago Bears di George Halas, che nel mese di dicembre lo mettono sotto contratto dopo aver superato la concorrenza di Cleveland Browns e Baltimore Colts.

Brian sognava di diventare uno dei protagonisti nel team della Windy City, ma un infortunio al tendine del ginocchio e la presenza di un certo Gale Sayers nel suo stesso backfield, gli crearono non pochi problemi, e alla fine venne inserito nella taxi squad della franchigia, dove rimase per diversi mesi prima che gli venisse concessa qualche chance per mettersi in mostra negli special team.

Missione che Piccolo portò a termine con successo, diventando il backup di “The Kansas Comet” l’anno successivo e chiudendo la stagione 1967 con 317 yards conquistate in 87 portate; ancora a secco di touchdowns tra i professionisti, il prodotto di Wake Forest ruppe questo tabù dodici mesi più tardi, assumendo il ruolo di starter quando il compagno di reparto uscì di scena a causa di un infortunio al ginocchio, e guidando l’attacco dei Bears con 450 yds corse e 2 TD realizzati.

Proprio il ’68 segnò per sempre la vita di Brian e Gale, che in quell’anno videro la loro amicizia crescere e rafforzarsi sempre di più, favorita soprattutto dall’animo gentile del primo, che invece di sfruttare i problemi fisici del collega per conquistare sempre più spazio nel team di Chicago, si mosse per aiutarlo in prima persona, spronandolo ogni giorno e affiancandolo durante l’intero percorso di riabilitazione e recupero.

Un gesto che Sayers si porterà per sempre impresso nella mente e nel cuore, e che gli diede la forza e la volontà di restare a fianco di Brian nel periodo più buio della sua vita, quando all’apice della carriera, mentre stava vivendo quel sogno di diventare protagonista nel mondo del football professionistico, scoprì di avere un tumore ai polmoni.

Bastò una tosse sospetta che si portava a presso da parecchi mesi, una corsa di troppo contro gli Atlanta Falcons, il 16 Novembre, e la decisione, inattesa, di sedersi in panchina per il troppo dolore, arrendendosi come mai aveva fatto prima nella sua esistenza, per aprire il più terribile dei vasi di Pandora, scoprendo il cancro che gli venne diagnosticato pochi giorni più tardi, al Memorial-Sloan Kettering Cancer Center di New York.

Operato d’urgenza il 28 Novembre, nonostante il medico avesse rivelato che il tumore maligno si stava diffondendo all’interno dei suo corpo, Brian chiese ai Bears di organizzare una conferenza stampa a casa sua, nella quale annunciò la sua intenzione, ferma e convinta, di superare la malattia e tornare a giocare a football dopo averla affrontata a viso aperto e battuta.

Intenzione che rimase purtroppo tale anche a causa delle sue condizioni, che precipitarono improvvisamente il 9 Aprile del 1970, quando subì un nuovo intervento atto ad asportagli il polmone e il pettorale sinistro; anche quel giorno, al suo fianco, oltre a sua moglie e alle sue figlie, c’era Sayers, pronto ad accompagnarlo negl’ultimi mesi del suo viaggio terreno e poi ancora oltre, in ogni documento, filmato, suonato, o di semplice testo che racconta quest’amicizia divenuta leggendaria.

Un’unione forte che, almeno per quanto riguarda la parentesi vitale, si spezzerà poche settimane più tardi, il 16 Giugno del 1970, quando l’immenso cuore di Brian cessò di battere, al termine di quindici intensi giorni di battaglia contro il dolore e quel cancro ormai diffusosi in tutto il suo corpo; settantadue ore dopo, accanto a quella bara che varcava il cancello del Saint Mary Catholic Cemetery di Chicago, con la moglie Joy e le tre figlie Lori, Traci, e Kristi, c’era l’intera squadra dei Bears, con Dick Butkus e Gale Sayers in prima fila, pronti a sorreggere il loro compagno in quella sua ultima corsa.

Lo stesso Sayers, un mese prima, mentre ritirava il “George S. Halas Award” pronunciò queste parole: “Io non merito di ricevere questo premio, perché c’è qualcuno più meritevole di me; lui ha il cuore di un gigante, ed è animato da quella rara forma di coraggio che gli permette di affrontare con il sorriso di un bambino se stesso e il suo avversario, il cancro. Ha l’atteggiamento mentale che mi rende orgoglioso di avere un amico che pronuncia la parola coraggio per 24 ore al giorno in ogni giorno della sua vita. Io amo Brian Piccolo, e mi piacerebbe che anche tutti voi lo amaste. Questa sera, quando vi inginocchierete per pregare, nelle vostre preghiere, chiedete anche a Dio amarlo.”

Se ancora oggi chiedete alla “Cometa del Kansas” qual è la persona che più di ogni altra ha segnato la sua vita, senza alcuna esitazione, senza lasciarvi nemmeno finire la frase, vi dirà che quella persona, quell’uomo, quell’amico, era Brian….E’….Brian Piccolo.

BrianPiccolo