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Cosa unisce un capitano dei paracadutisti, pluridecorato nella seconda guerra mondiale, ad un attore di film di secondo piano con un passato da stella del football professionistico, ed un ragazzo prematuramente stroncato dalla leucemia?

Riprendendo un interessante articolo apparso su l’antidiplomatico, rimango negli anni ’50: mentre Johnny Bright usciva con la mandibola rotta dalla gara contro Oklahoma A&M, su a Syracuse si stava costruendo un progetto sportivo che avrebbe trasformato il modo di vedere gli atleti afroamericani sui campi da football.

Schwartzwalder e Brown

Syracuse è una elegante e sonnacchiosa università dagli edifici in monumentale neoclassico. Orgogliosamente indipendente nel football, aveva messo assieme ottime stagioni guidata da Edwin Sweetland ad inizio secolo, e con Frank O’Neill e John Meehan a cavallo tra la metà degli anni ’10 e la metà degli anni ’20. Poi una infinità di stagioni mediori soprattutto negli anni ’40, a cui si volle porre rimedio ingaggiando l’allenatore del piccolo college di Muhlenberg, in Pennsylvania.

Un certo Floyd Benjamin “Ben” Schwartzwalder, eroe pluridecorato della seconda guerra mondiale, che prima di mettersi sugli aerei militari, aveva intrapreso giovanissimo la carriera di allenatore di football a livello di high school, vincendo due campionati statali, in un periodo dominato, a livello nazionale, da uno come Paul Brown, che ci servirà ricordare più avanti. In Europa, non era guarito dalla sua malattia per il football, organizzando leghe di football tra i soldati che si preparavano allo sbarco in Normandia, e allenando personalmente il 507mo Fanteria. Dopo il suo ritorno in patria, assunse il ruolo di capo allenatore al Muhlenberg College, una scuola di poco più di duemila ragazzi che nel football aveva scarse tradizioni e che nell’ultimo anno aveva messo assieme un deprimente 0-5. Con i Mules, chiuse due stagioni (1946 e 1947) da 9-1, la prima vincendo un virtuale campionato nazionale per small college, la seconda guadagnando addirittura un invito per il Tangerine Bowl, gara di post-season giocata ad Orlando, dove era assolutamente vietato far giocare atleti di colore.

Il vecchio Archbald Stadium, due volte incendiato

Dopo una nuova stagione terminata 7-3, arrivò la chiamata da Syracuse, dove assunse servizio nel 1949. Si era lontani dall’integrazione razziale soprattutto nel sud degli states, gli atleti di colore erano ancora pochi ed i college che praticavano una rigidissima segregazione razziale erano ancora tantissimi. Schwartzwalder aveva fatto la guerra, non era stato dietro una scrivania, e la guerra l’aveva fatta contro l’Asse, che proclamava il razzismo della superiorità ariana. Inutile dire che  Schwartzwalder avesse ben altra idea: altri ci misero molto a capirlo, ma gente come lui e Brown ci arrivarono subito che non è la pelle che va in campo, è la bravura dei ragazzi, indipendentemente dal loro pigmento.

I Syracuse Orangemen (non era ancora in vigore l’attuale soprannome di Orange), durante la guida di Schwartzwalder, non solo raggiunsero una invidiabile integrazione razziale, ma produssero alcuni dei più forti giocatori afroamericani di sempre, avendo particolare cura per il ruolo dei runningback, segnando un periodo talmente glorioso per l’università, da non essere stati più eguagliati. Il primo e forse anche più conosciuto giocatore fu Jim Brown, di cui quasi è inutile parlare: Brown era un atleta baciato dagli Dei dello sport, che nella sua carriera scolastica e poi collegiale giocò a football e lacrosse, entrando in entrambe le College Hall of Fame, ma anche a basket, il baseball e, ovviamente dato il ruolo, l’atletica leggera.

In qualità di giocatore di football come running back (ed in sovrapprezzo pure kicker) a Syracuse era il secondo maggior corridore di yard già durante l’anno da sophomore, per diventarne il migliore l’anno da junior e classificarsi quinto all’Heisman Trophy nell’anno senior, segnando una media record di 6,2 yard per corsa. La fine della sua avventura collegiale segnò una delusione per Syracuse giunta al suo primo bowl da favorita dopo il massacro dell’Orange Bowl del 1952: un extra point bloccato fece la differenza e Texas Christian portò a casa il Cotton Bowl del 1957. Passato ai Cleveland Browns che lo draftarono per la stagione 1957, se ne nadò nove stagioni dopo con record di yard corse per singola stagione (1.863 nel 1963) e in carriera (12.312), così come il maggior numero di rushing touchdown (106), touchdown totali (126), e yard guadagnate (15.549). Fu il primo a raggiungere il traguardo eccezionale dei 100 rushing touchdown, raggiunto ancora oggi da pochissimi giocatori nonostante l’espansione a 16 gare nel 1978 (le prime quattro stagioni Brown giocò 12 partite, le ultime cinque stagioni l’anno era composto da 14 gare) e come giusto che sia, fu inserito nella Hall of Fame non solo della sua squadra ma ovviamente anche della NFL. La recitazione è stata la sua seconda passione, anche se le capacità non sono paragonabili: fu il vice Montezuma Monroe in “Ogni Maledetta Domenica” (1999) con Al Pacino, Dennis Quaid, Cameron Diaz, ma soprattutto in “100 fucili” (1969), fu il primo attore afroamericano impegnato in una scena di sesso interraziale con Raquel Welch (mica Gegia!).

“A Brawling Battle of the Hard-Noses”, LIFE, 11 gennaio 1960

Dopo un 1957 tutto sommato non brillante, a Syracuse arrivò l’erede di Jim Brown: Ernest “Ernie” Davis, soprannominato poi “The Express”, che rimase fino alla stagione 1961 quando vinse l’Heisman, primo giocatore afroamericano a riuscirci, tanto che John Kennedy presenziò alla premiazione. Con Ernie Davis, gli Orange furono protagonisti nel 1959 della perfect season: vinsero tutte le partite, fino ad arrivare al Cotton Bowl nella Dallas segregazionista a cavallo dei due decenni, contro i Texas Longhorns, #4 del ranking e composti di soli ragazzi bianchi.

Il campo allentato e le tensioni razziali resero la partita un pezzo di storia del football collegiale, un pezzo non certo tenero perchè in campo si combattè entro le regole e fuori dalle regole, se all’inizio ci si porgeva la mano per rialzarsi, alla fine volarono i pugni come fece John Brown al tackle Larry Stephens, e lo stesso Schwartzwalder intervenne in campo per fermare i suoi, 75.000 persone videro imporsi Syracuse per 23-14 e Davis, autore di due TD, venne eletto MVP della gara.

Molti ancora si ostinarono a non voler vedere che il football integrato aveva vinto, Alabama dovette essere asfaltata nel 1970 da USC a domicilio per capirlo, tanto per fare un esempio. Ben si coccolò il suo Davis che gli permise di vincere il primo, e per ora unico, titolo nazionale nella storia di Syracuse, ed il suo lavoro, fatto di allenamenti durissimi, come se ci si preparasse a dei piccoli D-Day e non a delle gare sportive, colpì tanto l’opinione pubblica da portare la rivista LIFE a dichiarare Syracuse come la miglior squadra del decennio. 

Davis al centro con i compagni, dopo il Cotton del 1960

Ernie Davis fu anch’esso selezionato dai Cleveland Browns allenati da un altro di quei coach che del colore della pelle se ne era sempre strafregato, Paul Brown, ma una lucemia fulminante, scoperta al training camp prima della stagione del suo esordio, stroncò la vita prima ancora che la carriera di Davis, a soli 23 anni. L’onda emozionale per la sua morte fu grande, al suo funerale piansero in diecimila, e persino il presidente Kennedy, che lo aveva incontrato per l’Heisman, mandò un messaggio di cordoglio che venne letto durante la funzione. The Elmira Express: the Story of Ernie Davis di Robert C. Gallagher, venne scritto per ricordare la sua breve vita e ne venne tratto un film in cui ovviamente il lato razziale venne accentuato, soprattutto quando si parlò del famoso Cotton Bowl. Cleveland ritirò la sua numero 45, mai usata in gara.

Quando da Syracuse se ne andò anche Floyd Little, anche lui guarda caso running back, ed unico giocatore degli Orange ad essere All-American running back per tre volte, oltre ad essere poi diventato capitano storico dei Denver Broncos e settimo miglior giocatore di sempre per yard nella storia della lega con 6,323 yard all’attivo, all’Archbold Stadium presero la decisione di ritirare quella splendida maglia numero 44, quella che, per un curioso destino, avevano indossato sia Brown, che Davis, che Little. Una maglia carica di talento ma soprattutto, una maglia che ha tanto contribuito a cambiare il colore di questo sport.