Il Paradosso di Hernandez

“Siete così attratti dal modo con cui giochiamo aggressivi, dal fatto che giochiamo per uccidere i nostri avversari, ce lo chiedono i nostri allenatori di far morire gli avversari. Veniamo portati ai limiti dell’adrenalina e dell’aggressività. E voi pensate che poi noi a comando quando è finita la partita usciamo fuori dal campo come se niente fosse? Pensate che riusciamo a comando girando una manopola a svuotare tutta la quantità di adrenalina accumulata?”
(The Sublime by Brendan Cowell, traduzione a cura della redazione di MenteSport.net)


Aaron Hernandez, morto impiccato nella sua cella del Souza-Baranowski Correctional Center qualche giorno fa, ha subito fatto rialzare una marea di interesse nei confronti di un giocatore che nei mesi scorsi era stato da molti praticamente dimenticato tornando appetibile per la stampa solo per i passaggi giudiziari del suo processo.

Perché questo improvviso interesse per un giocatore che si poteva definire praticamente finito dopo l’incarcerazione? Cosa spinge degli appassionati di sport ad interessarsi in maniera così morbosa alle vicende personali di un giocatore che, come tanti altri, ha dimostrato di essere inadatto come uomo? Hernandez è uno degli esempi di come spesso venga trattato il gossip a livello sportivo: lo sport sempre di più è spettacolo e quindi non più solo gesto tecnico o invenzione tattica, ma anche vita personale dei giocatori e quindi gossip propriamente detto, quello che fino a 15 anni fa trovavamo solo nelle riviste delle sale d’aspetto dei dottori della mutua.

Quello che succede fuori dallo spogliatoio fino a qualche anno fa era ignorato dalla stampa sportiva, oggi invece, specialmente in una lunga offseason come quella del football, queste notizie salgono alla ribalta, alimentate sempre più spesso dall’aggressività dei giocatori che straripa dal campo invadendo la vita reale.

Sempre che si voglia seguire questo percorso e non si preferisca dare atto che è l’aggressività connaturata all’individuo quella che cercano i college e poi la NFL, per scaricarla quanto più possibile, magari amplificandola, nel gioco.

Questa iperaggressività come è stato sottolineato da Brendan Cowell nel suo controverso lavoro teatrale “The Sublime” ambientato nel mondo del football australiano, non può essere spenta nel momento in cui si esce dal campo perché appunto parte integrante dell’essere umano selezionato appositamente tra milioni di giocatori per avere quelle caratteristiche.

Questo crea ovviamente dei problemi fuori dal campo e se prima questi problemi venivano stemperati da un sistema di sport collegiale in qualche modo funzionante, con l’avvento dei network televisivi sportivi e della valanga di soldi che ne consegue, si sono spalancate le porte dell’università a ragazzi che hanno solo ed esclusivamente doti sportive richieste, con quello che ne consegue della loro crescita morale come uomini. I problemi fuori dal campo ora vengono ignorati o coperti, se ci si riesce, e se non ci si riesce, si abbandona a malincuore l’investimento andato a male, così come giustamente fecero i Patriots con Hernandez, reo di omicidio ma anche di aver tradito la fiducia riposta in lui dalla franchigia, e di aver messo in difficoltà la stessa franchigia, privata di un giocatore che pareva “fondamentale” nell’attacco guidato da Tom Brady.

Abbiamo a che fare sempre più spesso con eccellenti giocatori di football perché appunto iperaggressivi ma mentalmente instabili, non pronti ad essere giocatori professionisti a 360°, ma accettabili nel mondo della NFL dove la durata media della permanenza di un giocatore non superstar è tre anni.

Ci siamo detti tante volte che il professionismo oggi giorno comporta non solo la serietà e la preparazione in campo ma anche un atteggiamento fuori dal campo che non dia modo alla stampa gossippara di parlare di te, la NFL ha inoltre già da diversi anni iniziato una campagna di pulizia nei confronti dei propri tesserati per togliersi di dosso la nomea di una lega piena di gentaglia tipo spacciatori, omicidi, picchiatori di donne e ragazzini, eccetera eccetera… ma siamo così convinti che un sistema così tritacarne si fondi su un equilibrio così spostato verso la professionalità tout court piuttosto che, almeno per alcuni ruoli, uno sfruttamento di qualità innate e strapotere fisico cercando di limitare al minimo sindacale le “bravate”?

La vicenda di Hernandez rappresenta il paradosso di questo sistema: un sistema dove la Lega punisce i giocatori che non si attengono a un certo codice di comportamento ma le squadre draftano gentaglia conclamata, li allenano e li incitano ad essere dei sanguinari (il Bounty Program dei New Orleans Saints vi dice qualcosa?) e le testate sportive si fregano le mani perché sanno che i tifosi si interesseranno morbosamente ai giocatori ed ex giocatori che peggio si sono comportati, basta vedere quanto hanno presenziato Johnny Manziel e Josh Gordon sui siti sportivi a fronte del loro minutaggio in una lega che dovrebbe rappresentare il meglio del football, in tutti i sensi.

Uno sport profondamente di gruppo, costruito su precisissime meccaniche corali, ma che per funzionare dentro e fuori dal campo ha bisogno di nomi che destino interesse sotto ogni aspetto, anche il peggiore. Ora la Lega dovrà capire se questo atteggiamento ambivalente porta da qualche parte oppure se il comportamento bacchettone del Commissioner nei confronti dei fatti extrasportivi non faccia altro che alimentare polemiche per i diversi metri di giudizio tenuti per questioni “on field” (vedi le punizioni per le esultanze post-TD) e “off field”, e che queste polemiche riprese poi dai media non siano in realtà benedette dai proprietari delle squadre di una lega che basa ogni suo passo sulla maggiore visibilità.